Ulisse attraverso i secoli Da Omero al XXI secolo

Entriamo con questo canto nell'ottava bolgia, destinata ai consiglieri fraudolenti, dove si svolgerà uno dei più grandi episodi dell'Inferno, l'incontro con Ulisse.

Ed ecco appare una fiamma divisa in due corni, come già nel secondo cerchio si videro venire insieme due spiriti portati dalla bufera.

E la domanda di Dante a Virgilio, di poter parlare con loro, ricorda quell'altra domanda.

Ma l'ansia che traspare dalle sue parole, mai manifestata prima con tanto ardore, ci avverte che qui è in gioco qualcosa che tocca la sua vita nel profondo, più di ogni altra volta.

Durante di Alighiero degli Alighieri (Firenze, tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 –Ravenna,tra il 13 e il 14 settembre 1321)

« "S'ei posson dentro da quelle faville

parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego

e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna;

vedi che del disio ver' lei mi piego!»

(vv. 64-69)

Virgilio chiede ad Ulisse il racconto della sua fine, rimasta per tutti un mistero. L'eroe omerico racconta il suo viaggio senza ritorno oltre le colonne d'Ercole

James Augustine Aloysius Joyce, 2 Febbraio 1882- 13 Gennaio 1941
Ulysses, 1922

Il libro comincia con un’invocazione a Dio, parodia dell’invocazione alle Muse del prologo dell’ Odissea e della messa cattolica dove si incarna il Creatore.

Il romanzo è caratterizzato da ben diciotto episodi divisi in tre sezioni: la prima denominata Telemachia, che riguarda le avventure di Stephen-Telemaco; la seconda sezione riguarda le avventure di Ulisse, ossia di Leopold Bloom e nella terza si descrive il ritorno del personaggio principale Bloom, che ritorna alla sua normale quotidianità, come fece Ulisse intraprendendo il suo Nostos, verso Itaca. L’autore nel suo libro si evidenzia come un Omero dei tempi moderni, stravolgendo la struttura classica del poema greco. Il suo eroe, Bloom, è in effetti un antieroe; il suo viaggio nella vita non porta né ad alcuna meta né ad alcun risultato. Il suo percorso è segnato da continui insuccessi e sconfitte. Tra di essi, per esempio, la mancata sintonia con il giovane Stephen ed il tradimento subito da parte di sua moglie Molly.

Il romanzo è ambientato a Dublino, in Irlanda. Vengono narrate le vicissitudini di tre personaggi: Leopold Bloom, la moglie Molly ed il giovane Stephen Dedalus (una sorta di figlio spirituale di Bloom). Nei primi episodi del romanzo, vengono narrate le giornate di Stephen, un giovane letterato in crisi che viene identificato come il figlio spirituale di Leopold Bloom. Alle vicende di vita quotidiana di Stephen, si affiancano quelle di Leopold Bloom, un impiegato che lavora come procacciatore di pubblicità. Nel romanzo, viene analizzata la giornata di Bloom: il suo risveglio, gli appuntamenti della giornata più o meno piacevoli, la partecipazione al funerale di un amico, la sua mattina in ufficio e l’evolversi degli impegni della sua agenda. Man mano che passano le ore, Bloom incontra diversi personaggi, che diventano descrizioni singole facenti riferimento ai personaggi classici dell’Odissea di Omero, per l’autore. I cammini dei due personaggi, Leopold e Stephen, si sfiorano sovente ma non vengono mai in contatto.

Arriva il pomeriggio e Bloom riprende il suo girovagare per Dublino, tra negozi, persone e monumenti, mantenendo questo suo incedere disattento e svogliato. D’altro canto, Stephen, che si trova presso la Biblioteca Nazionale, intavola un’animata discussione su William Shakespeare. Poi i due finalmente si incontrano durante una visita ad una sua amica comune, Mina Purefoy, che ha da poco dato alla luce il suo bambino. Da lì, Leopold, Stephen ed i suoi amici partono alla volta di un pub. Dopo aver bevuto, la comitiva si dirige verso uno dei quartieri malfamati di Dublino per recarsi in un bordello, dove il giovane Stephen, visto il suo stato di ubriachezza, fomenta una rissa. Qui interviene Leopold che si adopera per cercare di difendere l’immagine e la reputazione dell’amico, convincendolo a seguirlo a casa sua. Qui i due iniziano una lunga conversazione che tratta delle diverse vicissitudini che i due hanno vissuto nella loro vita fino a quel momento.

Confronto

Come nell'Ulisse di Omero anche in quello di Joyce l'eroe rappresenta l'avventura dell'uomo nel mondo. Il protagonista, viaggiando, costruisce la propria identità, arricchendosi delle diversità con cui entra in contatto, senza risultarne distrutto o assorbito. Inoltre, proprio come nell’Odissea omerica, l'opera di Joyce non ha come punto di riferimento esclusivamente la soggettività della poesia, ma la cultura e la storia dell'umanità.

Umberto Poli, 9 marzo 1883 –25 agosto 1957

L’Ulisse che ama l’avventura, che non si vuole fermare mai, che disdegna il porto e preferisce sempre il mare aperto è quello più presente nella letteratura moderna e contemporanea. Il poeta triestino Umberto Saba si sente Ulisse proprio perché vuole un’esistenza piena, da vivere fino in fondo, con tutti i suoi rischi e dolori. Pur essendo ormai vecchio rifiuta la tranquillità: meglio veleggiare metaforicamente fra scogli insidiosi piuttosto che restare tra le luci rassicuranti del porto.

Ulisse, Mediterranee 1944

Analisi

Il poeta si immedesima nel personaggio di Ulisse. L'eroe greco che rappresenta lo stato d'animo di Saba e la sua collocazione di spirito: l'autore è infatti nella tarda maturità , ma sente di non avere esaurito la propria parabola esistenziale; anzi, la vita può ancora offrirgli verità da scoprire, purché non si accontenti dell'approdo, ma si metta in viaggio per raggiungere altre mete.

La lirica, tratta da Mediterranee e pubblicata nel 1948 come conclusione del Canzoniere, quasi a rappresentare un testamento spirituale con cui Saba rievoca la sua giovinezza e la sua maturità, paragonando la sua esistenza a un viaggio. Ma il pericolo e il rischio fanno parte della vita, e anche da vecchio, il poeta non sa rinunciare all'antico spirito di avventura, consapevole che "il porto accende ad altri i suoi lumi" mentre il suo disperato attaccamento alla vita ancora lo spinge al "largo".

Di notevole importanza è il titolo della poesia: l'eroe omerico, infatti, ripreso più volte da diversi autori di differenti letterature, diventa il simbolo della brama di conoscenza dell'uomo e della sua voglia di infrangerne i limiti, (vedi Dante o Joyce).

I campi semantici del tempo, nella lirica, sono di fondamentale importanza: "nella mia giovinezza" infatti si contrappone a "oggi" creando una divisione temporale netta e marcata.

Iniziata il suo viaggio-vita iniziano a emergere "isolotti" metafore delle prime difficoltà e dei primi ostacoli. ma subito dopo l'immagine di "vele sottovento" richiamano un idea di libertà

che ne sfugge "l'insidia". Il porto come spesso nella tradizione letteraria italiana diventa simbolo della pace dopo la tempesta, di una quiete finalmente raggiunta, ma c'è anche la consapevolezza che il porto-vita "accende ad altri i suoi lumi": il tempo di Saba è ormai finito, è giusto che si faccia spazio a nuove vite e nuove persone. Ma non riesce a frenare il suo "non domato spirito" che quindi va al largo e continua il suo viaggio, questa volta verso l'ignoto, perchè dopo aver raggiunto l'obiettivo della sua vita, non gli resta che viaggiare alla ricerca di qualcosa. Ovviamente in questi ultimi versi il richiamo allo "spirto guerrier" di Foscolo è evidente, come del resto in tutta la lirica. La struttura è quella degli endecasillabi.

Testo

Nella mia giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.

La figura di Ulisse nella letteratura del Novecento, è diventata spesso il simbolo dell’inquietudine morale e filosofica dell’uomo contemporaneo, accompagnandosi in genere ai motivi del viaggio e della ricerca della verità (come già in Dante).
Cesare Pavese, 9 settembre 1908 – 27 agosto 1950
L'isola, “Dialoghi con Leucò”

Nel mito vero e proprio c'imbattiamo ogni volta che ci accade di riandare nel tempo all'inizio di un'epoca di poesia. Risalendo il cammino della civiltà di qualunque popolo vediamo le sue varie espressioni di vita colorirsi sempre piú di miticità, finché viene il momento che nulla piú si fa né si pensa nell'àmbito della tribú che non dipenda da un modello mitico. Che cosa significa questo dipendere? Le varie usanze quotidiane e festive, il linguaggio, le tecniche, le istituzioni e le passioni, tutto si modella su fatti accaduti una volta per sempre, su divini schemi che in un senso non soltanto temporale sono all'origine di ogni attività ‒ qualcosa, per accadere, ha bisogno d'esser già accaduto, d'essere stato fondato fuori del tempo. II mito è ciò che accaderiaccade infinite volte nel mondo sublunare eppure è unico, fuori del tempo, cosí come una festa ricorrente si svolge ogni volta come fosse la prima, in un tempo che è il tempo della festa, del nontemporale, del mito. Prima che favola, vicenda meravigliosa, il mito fu una semplice norma, un comportamento significativo, un rito che santificò la realtà. E fu anche l'impulso la carica magnetica che sola poté indurre gli uomini a compiere opere. (Pavese, 1950)

1947, tutti sanno che Odisseo naufragò, sulla via del ritorno; restò nove anni sull’isola Ogigia, dove non c’era che Calipso, antica dea.

Trama

I ventisei dialoghi dell’opera di Pavese sono organizzati in brevi conversazioni a due interlocutori. È sempre presente una protagonista, Leucotea che alterna le sue conversazioni con eroi della mitologia greca e latina, sia dèi, sia mortali. Le conversazioni, ricche di tensione e intrise di tragedia, affrontano le tematiche più universali della storia dell’umanità: il rapporto tra uomo e natura, le eterne angosce dell’uomo, la sessualità, la morte, la necessità del dolore, il destino, il ricordo, il rimpianto ecc.

Il primo nucleo tematico è quello che vede il passaggio dell’uomo dal caos dell’indistinto (I Titani) al mondo degli dèi. Motivo connesso al passaggio dall’irrazionale alla presa di coscienza della ragione, è quello della nostalgia per l’infanzia (I due, La madre), argomento ricorrente nell’angoscioso esistenzialismo pavesiano. Altra tematica ingombrante nel libro è quella della sessualità (Gli Argonauti, Schiuma d’onda, La belva, L’inconsolabile) in cui si affronta in modo tragico il legame tra sesso e morte. Il tema della morte è associato in modo assoluto all’idea di libertà di fronte a un destino segnato (La madre, I due, La strada) che porta, senza possibilità di uscita, alla tristezza della condizione dell’uomo. La rupe, La chimera e La nube si scontrano con l’idea del combattimento, dell’audacia e della sconfitta; infine viene illustrato l’anelato desiderio umano di raggiungere gli dei, l’irrazionale, l’esaltazione e l’aspirazione al divino in un contrasto eterno e incolmabile.

Com'è nata l'opera?

«Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c'è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand'era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l'assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po' straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi»

«Nel cuore, come te»

Dialoghi rappresentano una delle opere intellettuali e spirituali più significative del Novecento.

CALIPSO Odisseo, non c’è nulla di molto diverso. Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola.

Hai veduto e patito ogni cosa. Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito. Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino. Perché continuare ? Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi ? Qui mai nulla succede. C’è un po’ di terra e un orizzonte. Qui puoi vivere sempre.

ODISSEO Una vita immortale.

CALIPSO Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola, dilla. Tu sei davvero a questo punto?

ODISSEO Io credevo immortale chi non teme la morte.

CALIPSO Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto? Perché i discorsi che vai facendo tra gli scogli?

Odisseo. Se domani io partissi tu saresti felice?

Calipso. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale. Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci.

ODISSEO Si tratta sempre di accettare un orizzonte.

E ottenere che cosa ?

CALIPSO Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dei che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni. E chi son io, chi è Calipso?

ODISSEO Ti ho chiesto se sei felice.

CALIPSO Non è questo, Odisseo. L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta, che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare e di stridi di uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada. Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse ?

ODISSEO Dunque anche tu parli agli scogli ?

CALIPSO E’ un silenzio, ti dico. Una cosa remota e quasi morta. Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dei quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare ma obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli piú muovere. Qualcuna di noi resistè ai nuovi dei; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.

Odisseo. Ma non eri immortale?

CALIPSO E lo sono, Odisseo. Di morire non spero. E non spero di vivere. Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile, la vecchiezza e il rimpianto. Perché non vuoi posare il capo con me, su quest’isola?

ODISSEO Lo farei, se credessi che sei rassegnata. Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose, hai bisogno di me, di un mortale, per aiutarti a sopportare.

CALIPSO E’ un reciproco bene, Odisseo. Non c’è vero silenzio se non condiviso.

ODISSEO Non ti basta che sono con te quest’oggi ?

CALIPSO Non sei con me, Odisseo.

Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola.

E non sfuggi al rimpianto.

CALIPSO Quel che rimpiango è la parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno che terra e mare ti obbedivano ? Hai sentito ch’eri sola e che eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto. Quello che sei l’hai voluto.

CALIPSO Quello che sono è quasi nulla, caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. E’ un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.

ODISSEO Sei tu, la signora, che parli ?

CALIPSO Temo il risveglio, come tu temi la morte. Ecco, prima ero morta, ora lo so. Non restava di me su quest’isola che la voce del mare e del vento. Oh non era un patire. Dormivo. Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te.

ODISSEO Da troppo tempo la cerco. Tu non sai quel che sia avvistare una terra e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi. Io non posso accettare e tacere.

CALIPSO Eppure, Odisseo, voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto è sempre un male. Il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo. Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso, potrai ancora riconoscere le case, le tue case ?

ODISSEO Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.

CALIPSO Oh mutata, perduta, un silenzio. L’eco di un mare tra scogli e un po’ di fumo. Con te nessuno potrà condividerla. Le case saranno come il viso di un vecchio. Le tue parole avranno un senso altro dal loro. Sarai più solo che nel mare.

ODISSEO Saprò almeno che devo fermarmi.

CALIPSO Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…

ODISSEO Non sono immortale.

CALIPSO Lo sarai se mi ascolti. Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che va ? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto ?

ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.

CALIPSO Dimmi.

ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

Giovanni Agostino Placido Pascoli, 31 dicembre 1855 –6 aprile 1912
L'ultimo viaggio di Ulisse, 1905

L’ultimo viaggio è il più ampio e signi cativo dei Poemi conviviali. Diviso in ventiquattro brevi canti (l’Odissea era divisa in ventiquattro libri), descrive la delusione dell’Ulisse omerico nel rivisitare i luoghi delle sue avventure.

I versi che presentiamo, tratti dall’ultimo canto (XXIV), rievocano l’ultimo approdo all’isola di Ogigia e l’incontro di Ulisse con la ninfa Calypso, che secondo la narrazione omerica aveva ospitato per sette anni l’eroe prima del rientro in patria.

La forma metrica è in endecasillabi sciolti.

Ne "Il Ritorno", il poemetto incluso in Odi e Inni, Pascoli aveva già trattato della figura di Ulisse.

nella quale Odisseo giunto verso la fine della sua vita, decide di imbarcarsi in un’impresa per mare, il suo però non è un viaggio verso l’ignoto bensì un ritorno nel già noto, vuole ripercorrere a ritroso l’antico itinerario alla ricerca di luoghi e figure del passato per interrogarsi sul senso della propria esperienza, per accertarsi della sua stessa consistenza.

Come già in Baudelaire l’unica verità sarà però una definitiva, tragica disillusione, fatta di silenzi e morte e ben rappresentata dall’immagine delle Sirene che, per la prima volta nella storia della letteratura, tacciono negando così ad Ulisse ogni speranza di conoscenza. (“nostos negato”)

L’Ultimo viaggio si chiude così con la morte di Ulisse, la sua nave si scontra fra gli scogli delle mute Sirene e le acque trasporteranno il cadavere del naufrago presso l’isola di Calypso dove sarà la dea a ritrovarlo [Morte di Ulisse = morte del Mito]

Questa volta, al termine del lungo errare di Odisseo c’è, come nell’Inferno, la morte. L’Odisseo di Pascoli anela ad una verità che dia senso alla vita e proprio in questo suo desiderio di totalità assoluta si annida il germe dell’annientamento senza remissione. L’uomo del nostro ieri vuole possedere l’universo intero: al termine dell’ultimo viaggio, stringe nelle mani un pugno di sabbia.

Milan Kundera, Brno, 1 aprile 1929

Trama

Un uomo e una donna si incontrano per caso mentre tornano al loro paese natale, che hanno abbandonato vent’anni prima scegliendo la via dell’esilio. Riusciranno a riannodare i fili di una strana vicenda d’amore, appena iniziata e subito inghiottita dalla Storia? Il fatto è che dopo una così lunga assenza “i loro ricordi non si somigliano”.

La nostra memoria è flebile: viviamo sprofondati in un immenso oblio, e ci rifiutiamo di saperlo. Solo coloro che, come Ulisse, tornano dopo vent’anni a Itaca possono contemplare, attoniti e abbagliati, la dea dell’ignoranza.

L'ignoranza, 2001

Nostalgia

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnolo dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stỳskà se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù. Alcune lingue hanno qualche difficoltà con la nostalgia: i francesi non possono esprimerla se non con il sostantivo di origine greca e non hanno il verbo relativo; Je m’ennuie de toi (“sento la tua mancanza”), ma il verbo s’ennuyer è debole, freddo, e comunque troppo lieve per un sentimento cosi grave. I tedeschi utilizzano di rado la parola “nostalgia” nella sua forma greca e preferiscono dire Sehnsucht: “desiderio di ciò che è assente”; ma la Sehnsucht può applicarsi a ciò che è stato come a ciò che non è mai stato (una nuova avventura) e quindi non implica di necessità l’idea di un nòstos; per includere nella Sehnsucht l’ossessione del ritorno occorrerebbe aggiungere un complemento: Sehnsucht nach der Verganghenheit, nach der verlorenen Kindheit, nach der ersten Liebe (“desiderio del passato, dell’infanzia, del primo amore”).

L’Odissea, l’epopea fondatrice della nostalgia, è nata agli albori dell’antica cultura greca. Va sottolineato: Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, è anche il più grande nostalgico. Partì (senza grande piacere) per la guerra di Troia e vi rimase dieci anni. Poi si affrettò a tornare alla natia Itaca, ma gli intrighi degli dei prolungarono il suo periplo, dapprima di tre anni, pieni dei più bizzarri avvenimenti, poi di altri sette, che trascorse, ostaggio e amante, presso la dea Calipso, la quale, innamorata, non lo lasciava andar via dalla sua isola.

Nel quinto canto dell’Odissea, Ulisse le dice: “So anch’io, e molto bene, che a tuo confronto la saggia Penelope per aspetto e grandezza non val niente a vederla… ma anche così desidero e invoco ogni giorno di tornarmene a casa, vedere il ritorno”. E Omero prosegue: “Così diceva: e il sole s’immerse e venne giù l’ombra: entrando allora sotto la grotta profonda l’amore godettero, stesi vicini l’uno all’altra”.

Nulla che si possa paragonare alla misera condizione di esule che Irena aveva a lungo vissuto. Ulisse conobbe accanto a Calipso una vera dolce vita, vita di agi, vita di gioie. Eppure, fra la dolce vita in terra straniera e il ritorno periglioso a casa, scelse il ritorno. All’esplorazione appassionata dell’ignoto (l’avventura), preferì l’apoteosi del noto (il ritorno). All’infinito (giacché l’avventura ha la pretesa di non avere mai fine), preferì la fine (giacché il ritorno è la riconciliazione con la finitezza della vita).

Senza svegliarlo, i marinai di Feacia adagiarono Ulisse avvolto nei lini sulla spiaggia di Itaca, ai piedi di un ulivo, e se ne andarono. Fu questa la fine del viaggio. Ulisse dormiva, esausto. Quando si svegliò, non sapeva dov’era. Poi Atena disperse la nebbia dai suoi occhi e fu l’ebbrezza; l’ebbrezza del Grande Ritorno; l’estasi del noto; la musica che fece vibrare l’aria tra la terra e il cielo: vide l’insenatura che conosceva sin dall’infanzia, i due mondi che la sovrastavano, e carezzò il vecchio ulivo per assicurarsi che fosse ancora quello di vent’anni prima.

Nel 1950, quando Arnold Schömberg viveva negli Stati Uniti da ormai diciasette anni, un giornalista americano gli rivolse alcune domande perfidamente ingenue: E’ vero che gli artisti emigrando perdono la loro forza creatrice? E’ vero che l’ispirazione inaridisce non appena le radici del paese natale cessano di alimentarla?

Ci pensate? Cinque anni dopo l’olocausto! E un giornalista americano non perdona a Schömberg di non essere legato a quel lembo di terra dove, sotto i suoi occhi, si era scatenato l’orrore degli orrori! Non c’è niente da fare. Omero rese gloria alla nostalgia con una corona d’alloro e stabilì in tal modo una gerarchia morale dei sentimenti. Penelope sta in cima, molto al di sopra di Calipso. Calipso, oh Calipso! Pensò spesso a lei. Ha amato Ulisse. Hanno vissuto insieme sette anni. Non sappiamo per quanto tempo Ulisse avesse condiviso il letto di Penelope, ma certo non così a lungo. Eppure tutti esaltano il dolore di Penelope e irridono le lacrime di Calipso.

Rosa Maria Apetino

Made with Adobe Slate

Make your words and images move.

Get Slate

Report Abuse

If you feel that this video content violates the Adobe Terms of Use, you may report this content by filling out this quick form.

To report a Copyright Violation, please follow Section 17 in the Terms of Use.